Perché non leggete i libri sull’educazione diffusa?

Perché non leggete i libri sull’educazione diffusa?

Sono passati sette anni da quando uscì il primo testo nato dalla collaborazione tra Giuseppe e Campagnoli e me sull’educazione diffusa e la città educante. Nel frattempo, sono usciti altri quattro testi sul tema, sempre più approfonditi e specifici. Sono partite alcune esperienze, non molte per la verità, si è sviluppato molto interesse, specie da parte di educatori, insegnanti, dirigenti scolastici e studenti.

Pochissimo interesse invece da parte degli addetti ai lavori, dei pedagogisti, dei colleghi che animano altre imprese di educazione alternativa, di intellettuali con inclinazione pedagogica.

Ora non nego, ne sono ben consapevole, che ciò che proponiamo è molto molto ambizioso, molto difficile da porre in atto, specie in modo accurato. La nostra idea, che nasce dalla sintesi di contributi diversi sia di carattere educativo, specialmente sul fronte attivistico e libertario, sia di carattere politico e sociologico, con riferimento particolare al pensiero di figure come quelle di Vaneigem, Schérer, Hakim Bey, Illich, sia su quello architettonico e urbanistico, su cui spesso ha richiamato l’attenzione, nei suoi numerosi interventi, Giuseppe Campagnoli.

La differenza, conclamata, della nostra proposta, è che si colloca nel solco della descolarizzazione. E’ apertamente dichiarato. Noi non desideriamo più che i minori debbano trascorrere così tanto tempo della loro vita in un congegno che giudichiamo, pur con tutte le sue varianti e tutte le sue eccezioni, oppressivo ma soprattutto inefficace.

So bene che questa scelta di campo ha impedito e impedisce di fatto a una grandissima parte del mondo pedagogico (innovativo fin che si vuole ma pur sempre restio ad abbandonare l’ancoraggio scolastico) di prenderci in considerazione. Ricordo che forse nell’unica recensione ottenuta su un giornale (L’avvenire), proprio dal primo volume che pubblicammo, La città educante, l’autore, che aveva palesemente letto solo la quarta di copertina (lo si deduceva dalle pochissime citazioni fatte, tutte tratte da essa), ci accusava di porre mano a un tentativo velleitario di attaccare la scuola.

So bene che molti pensano che l’educazione diffusa sia velleitaria, utopistica o addirittura confusa. Credo anche che tuttavia molti di quelli che la pensano così non abbiano neppure aperto uno dei nostri libri su di essa. Che si siano accontentati di un pezzo letto su un social o di qualche voce.

Non ne sanno nulla. Non hanno mai approfondito la complessa struttura che noi proponiamo, certamente antitetica a quella scolastica ma assai ricca e radicata in molti pensieri approfonditi sui processi di apprendimento, sulle dimensioni psicologiche e motivazionali che debbono presiedere a qualunque proposta educativa non destinata al sicuro insuccesso, sul reticolo di agenti che dovrebbe intervenire affinché un’educazione autenticamente diffusa cambi il volto dei nostri territori e la vita dei più giovani.

La cambi davvero, sistematicamente, nel tempo, non saltuariamente, con qualche giro per le campagne o qualche simpatico evento che coinvolge la cittadinanza.

Nell’ultimo volume, Il sistema dell’educazione diffusa, non letto naturalmente da nessuno non solo dei nostri detrattori ignoranti ma anche da quelli che sostengono di condividere almeno la visione, c’è la descrizione puntuale dell’intero apparato educativo della città educante, dall’infanzia alla tarda adolescenza, fin nei suoi minimi dettagli. Il che non significa che non si sia consapevoli che un mutamento della portata di quello che auspichiamo dovrà procedere gradualmente, per prove ed errori, che per anni sarà un laboratorio permanente (un laboratorio complesso, articolato, su scala territoriale, non un laboratorio chiuso nella scuola). Lo sappiamo bene. Non è neppure una proposta chiavi in mano. Ognuno, nel suo ambito, dovrà ripensarlo, adattarlo, renderlo compatibile con i vincoli e le opportunità della sua situazione.

Noi, come detto e sottolineato più volte, non vogliamo solo ragazzi e bambini che escono dalla scuola, vogliamo paesi e città che si adattano ad ospitarli e ad offrire loro campi d’esperienza, di cultura, di esercizio di cittadinanza. Non so se è abbastanza chiaro. La scuola deve progressivamente essere sostituita dal mondo e da sedi di raduno puramente funzionali ad un nuovo approccio all’esistenza dei più piccoli. Che si svolge nelle pieghe del tessuto urbano o naturale cercando di permettere di esplorarne e interrogarne il funzionamento al più alto grado possibile. Che permetta di partecipare effettivamente, di essere cocostruttori della realtà.

Ma nessuno ha letto, nessuno ha scritto neppure una recensione. Certo noi non scriviamo per Feltrinelli (non ci pubblicherebbe mai, come tutte le grandi case editrici fa parte della lobby proscuola), scriviamo per piccole case editrici coraggiose.

E tuttavia abbiamo bisogno anche del contributo degli altri, non di quelli che si collocano all’opposto ovviamente, quegli intellettuali di sinistra, che spesso insegnano al liceo classico, dimenticandosi che è un parto fascista, e che sostengono nei loro libri l’importanza della lezione frontale (per altro a volte necessaria, certo però non ci scriverei un libro sopra, se non per dichiarare con nettezza che mi colloco dalla parte della parte più retriva del dibattito sull’educazione); abbiamo bisogno dello sguardo, anche critico, se possibile costruttivo, dei colleghi e degli amici che si muovono in direzione di un’innovazione non rinunciataria. E ce ne sono molti.

Che in generale però ci schifano.

Anche loro hanno le loro proposte. E non si schiodano da lì. Eppure, spesso, almeno parte di quelle proposte confluisce nell’insieme dell’educazione diffusa.

Lo so, figuriamoci, anche noi a volte abbiamo la lingua tagliente. Credo sia anche il frutto però di questo sistematico ignoramento. Se una scuolina fa una piccola esperienza di cambiamento ne parlano tutti i giornali. La nostra proposta invece (cinque libri!) non ha ottenuto neanche una recensione, un parere, un suggerimento.

Il modo migliore per far fuori una tesi che non si ama è ignorarla. E’ una vecchia strategia. Sono perfettamente consapevole che il nodo è la difesa della scuola. Molti amici si chiedono come si possa combattere la scuola nell’epoca in cui si intravvede una sua possibile privatizzazione. E allora fanno quadrato. Attenzione però a non fare quadrato intorno a un relitto. Posto che mai sia stata una nave capace di fare vela degnamente (per i suoi utenti).

La crisi della scuola, che ora si cercherà di rappezzare con il digitale, a mio giudizio la peggior iattura che si possa immaginare (per uno che pensa da sempre che al centro dell’educazione dei piccoli debba esserci il corpo (corpo pensante) e l’esperienza (fare ciò che appassiona), forse ci chiede di guardare altrove, verso un’altra prospettiva di educazione pubblica, finalmente all’altezza dei suoi fruitori e non più solo agganciata a obiettivi di adattamento al mercato o alla trasmissione di valori anche giusti ma che debbono essere incarnati in esperienze per poter attecchire.

Insomma, alla fine di questi anni il mio invito è almeno di leggerci, se qualcuno ha voglia di darci qualche contributo, anche critico ripeto, o di venire a visitare qualcuna delle nostre esperienze.

Ci si renderà conto che è questa la strada da fare, anche se ci sarà chi continuerà a pensare che ne basti un pezzo, un frammento. Va bene, purché però non si accondiscenda alle logiche di sfruttamento, di oppressione e di annichilimento sistematico in vista di un allenamento alla performance competitiva e resiliente, che credo sia una nuova forma di schiavismo implicito senza scrupoli.

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6 comments on “Perché non leggete i libri sull’educazione diffusa?”

  1. Marco Epis

    Ciao Paolo, nutro sempre molta stima per quello che fai e per quello che scrivi (sui libri o sul blog).

    Nel mio piccolo, alcuni dei tuoi libri sull’Educazione Diffusa li ho anche letti – Gaia Educazione Diffusa, Caro Insegnante, il piccolo manuale – e li tengo nella libreria in camera da letto, per poterli rileggere in notti insonni (benché abbiano purtroppo concorrenti spietati come i libri di Hillman e di tanti altri autori oltre, naturalmente, al telefono).

    Rispetto al tuo articolo, che mi suona un appello a tratti accorato, a tratti disilluso, ci sono alcune cose che mi sento di condividere con te in assoluta sincerità.

    Nelle prime righe scrivi che i libri (ma la ED in generale) ha fatto breccia negli studenti. Per fortuna, visto che sono loro i destinatari ultimi (e beneficiari) di ciò che hai scritto e proposto.
    In più, ha fatto breccia anche anche nelle persone a loro più vicine nel quotidiano.

    Avrai certamente le tue buone ragioni per chiedere, desiderare e aspettarti che anche coloro che hanno i mezzi per operare scelte strutturali a livello politico e mediatico diano quanto meno una sbirciata ai tuoi libri. In parte (perché ogni sentire è unico) lo capisco.
    Tuttavia, non è una cosa scontata.

    La visione che proponi è materia viva e incandescente, e nessun morto vivente, nè al ministero, nè in qualche facoltà o redazione, possono spegnere del tutto la sua portata.
    Parafrasandoti, è solo questione di tempo.

    Se mi è consentito darti un parere più che un consiglio, proseguirei sulla strada da te intrapresa ad esempio con gli Agit Prop. La strada, è brutto dirlo, della semplificazione e della socializzazione. Bisogna servirlo condito il piatto, e premasticarlo anche un po’, perché vada giù da quel tubo sempre più stretto e meno abituato ai piatti sofisticati, complessi. Io stesso, lo ammetto, passo sempre meno poche volte dalla libreria vicino al letto e indovina perché.

    Eppure quegli agit prop me li sono davvero goduti. Sarà proprio cambiato il modo di fruire della conoscenza, non lo so, sta di fatto che se questa proposta della GE può attecchire, può farlo soltanto tra i giovani.
    Se puoi lasciare un seme, puoi farlo solo in quella terra. Che però ha strumenti tutti suoi per essere arata, che vanno conosciuti e imparati a utilizzare.

    Noto ad esempio che non utilizzi Instagram per parlare del tuo progetto. Lo so, mandami a quel paese se vuoi, anche per me non è stato facile imparare a utilizzarlo per il mio lavoro. La notizia buona è che l’apprendimento nel solco della tradizione immaginale mi sta aiutando ad utilizzare lo strumento con creatività.
    Ti confesso che spesso, mentre provo a creare dei contenuti, mi vengono in mente alcuni passi del tuo “Caro insegnante”. Anche su Internet (e in particolare su Instagram) si tratta di essere meno “frontali”, creare suggestioni, rimandi simbolici, lasciare zone in penombra.
    Il profilo social è la nuova cattedra e se la scuola, come scrivi, va in rete, lo fa per rincorrere i propri “clienti”, i giovani che già la abitano e giocano quindi in anticipo. Credo che tu abbia un grande vantaggio, con la tua sensibilità, per andarli a “scovare” e portare dalla tua. Qui, in rete, i “grossolani” sono proprio quelli di stampo antico di cui ti lamenti che non leggono se non la quarta di copertina dei tuoi libri e che non vogliono modificare la scuola.

    Per venire al sodo, considera l’opportunità di creare la tua community su Instagram.
    Penso che il web, e Instagram in particolare, abbia la potenzialità (visto che è un algoritmo da conoscere) per farti conoscere da parte di più persone come quelle in cui (cito) “si è sviluppato molto interesse, specie da parte di educatori, insegnanti, dirigenti scolastici e studenti.” Persone che troverebbero certamente interessanti i tuoi libri, che potrebbero dare il loro contributo e “venire a visitare qualcuna delle nostre esperienze” (alcune delle quali potrebbero già essere fatte conoscere online).

    Non so a che punto e dove sei, e so di non parlare da un grande pulpito, dato che ho iniziato da poco anche io questo viaggio sui social. Ma nel tuo caso, rivolgendoti agli studenti, credo che sia una strada necessaria per te e per loro. Ne hanno bisogno, di mentori online, visto che devono lasciarsi tutti i vecchi a casa. O a scuola.

    E scusa il parere del tutto infondato e di chi non è addetto ai lavori, ma se la scuola sta cadendo, lasciamola cadere.

    Tu parli di strade, che i ragazzi devono tornare ad abitare le strade, e non gli schermi dei loro telefonini o computer (che sono – o rischiano di essere – i nuovi banchi di scuola).

    Ti invito a visitare il profilo di un poeta che, come te, sta facendo la propria rivoluzione, e che non solo è riuscito a trovare il proprio pubblico su Instagram, ma che, quest’estate, ha portato questo pubblico sui Calanchi e l’ha tenuto lì a leggere poesie, fare musica e popolare strade e cimiteri per giorni e notti insonni. Quel poeta, immagino tu lo conosca, si chiama Franco Arminio.

    Concludo questa marea di cazzate, dalla quale spero tu possa spulciare qualcosa di sensato o di sentito, e mi rendo ovviamente disponibile a proseguire (qui o altrove) il confronto, se ti va.

    A proposito, gli Agit Prop su Youtube sono finiti? Me li ero proprio goduti e sinceramente dagli ultimi episodi mi sembrava che dovesse esserci un seguito. Ti sei stancato? Lo ammetto, i commenti sono merce rara, almeno fin quando non scatta quel quid, però non sono l’unica metrica per farci desistere dal proseguire.

    Ciao

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  2. Marco Epis

    Paolo, c’è speranza per l’Educazione in strada!

    https://www.youtube.com/watch?v=HEHgIeQ3Ooc

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  3. Francesco

    Prof. Mottana,

    Procederò per “metafore immaginali”: ritengo che lei sia come il colonnello Kurtz in apocalisse now.
    L’uditorio a cui si è rivolto all’edufest è come, per fare un esempio di categoria di specialisti (ma un qualsiasi genitore che è andato a scuola fino alla terza media nelle scuole di quartiere non è molto dissimile dai pupazzi citati), è come il protagonista della citata pellicola che tornato alla vita civile, guardando il ventilatore, rivede le pale dell’elicottero e capisce che non può vivere senza Vietnam.

    I cuccioli di uomo, sono i vietnamiti. Si sono trovati la guerra in casa e la combattono non capendo che una volta che sarà finita saranno cambiati in peggio. Pur di vincere, e per vincere non si intende niente più che sopravvivere, sono disposti a diventare assassini che assassinano più del nemico stesso.

    Silvano agosti si era inventato la Kirghisia, lei oltre a inventarsela l’ha creata e progettata. Tra qualche decennio, dopo qualche stravolgimento storico necessario, tutto ciò che dice sarà comune come oggi è comune avere un telefono in tasca…

    Finché si ostina a condividere la stessa minestra con Fusaro, e il rincretinito patologici che fa la fisica dell’amore, tutto ciò che ha da dare ai cuccioli di uomo sarà vanificato. Il contenitore è il contenuto, e il medium è il messaggio… Non si autoinflugga la punizione di sbagliare compagine.

    Faccia come il colonnello Kurtz, devietnamizzi il Vietnam.

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    • wp_8552554

      Grazie Francesco della fiducia ma temo che tra un decennio le cose, di questo passo, saranno anche peggio. Ciò non mi impedisce di provarci ancora, fallendo meglio, per citare il Beckett

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      • Francesco

        Caro prof.

        Tra un decennio si godrà il meritato congedo tra Ibiza e cap d’Adge male che vada… Non sarà geografico il problema ma di epoca storia, ne sono sono consapevole, ma vedrà che uscendo dal mattatoio accademico e scolastico la vita avrà un sapore diverso.

        Chi l’ha capita le vuole bene, non lo scordi mai (e non siamo pochi), neanche le scuole da aristocrazia contemporanea hanno avuto la fortuna di avere un prof. Ispirato come lei, nonostante i mezzi a disposizione. Imbevono di storia antica i malcapitati giusto per inculcargli il dominio marziale e l’istinto predatorio per farli diventare tutti capitani di industria.
        Il film “il club degli imperatori” , non sarà stato un capolavoro ma è un ritratto efficace di come si vorrebbero istruire i figli dello 0,1% negli Stati Uniti da sempre. Che poi è l’educazione di Lex Lutor, il maligno per eccellenza.

        I cuccioli di uomo non hanno l’etica del lavoro ma della realizzazione personale (che vogliono concretizzare nei modi più cupi e obbrobriosi perché la cultura popolare quello gli propone). Di femmine infibulate metaforicamente ne troviamo… ma hanno creato una polarizzazione con quelle che dicono “non ci sono più gli uomini di una volta” (deduttivamente, forse, perché non ci sono più le donne di una volta – leggasi mini Cooper e minigonne). Queste cose le abbiamo già sentite con grande tempismo da qualcuno.

        Coraggio! Un grande abbraccio

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