
Una questione abbastanza decisiva del nostro tempo mediocre è sicuramente quella che riguarda la popolarità (e probabilmente fame di popolarità e mediocrità sono intimi alleati).
E’ un problema che a volte incrocia ovviamente anche i miei pensieri personali. Essere o non essere popolari? Si potrebbe dire.
Penso che essere popolari sia un desiderio naturale e piuttosto comune specie nelle persone che hanno un discreto grado di autostima, per non parlare poi di quelli che ce l’hanno sovradimensionata (oppure, per converso, e forse più veritieramente, in chi non ce n’ha affatto). Una domanda riguarda la questione se ottenendo popolarità effettivamente si risolve almeno in parte il nostro problema di essere amati, di essere apprezzati e se effettivamente per esempio l’essere riconosciuti per strada induca un senso di gratificazione. Senza scomodare Hegel o Lacan sappiamo anche a buon senso che il desiderio di essere desiderati e, addirittura, invidiati, è uno dei nostri desideri più profondi. Quindi ne deriverebbe che essere popolari (si spera per opere positivamente apprezzate oppure anche semplicemente per il proprio aspetto ma non escludiamo ovviamente che anche una popolarità negativa, i casi eccellenti sono numerosi, possa essere un discreto coadiuvante) assicuri la soddisfazione di uno dei nostri desideri o addirittura bisogni di base.
Tutti sappiamo d’altra parte che molte persone di successo finiscono male. Probabilmente influisce il grado del successo, e probabilmente anche la sostanza, voglio dire per esempio la congruenza tra ciò che viene ammirato o amato e la nostra personale persuasione che quel che viene apprezzato ci corrisponda. Credo che molti personaggi popolari per esempio soffrano della cosiddetta sindrome dell’impostura, cioè di non sentirsi davvero quello che altri possano credere e che quindi ne scaturisca una sorta di scissione psicologica e addirittura sentimenti di vergogna e di imbarazzo.
Il grado anche non scherza. Essere molto popolari può produrre la necessità di non più mostrarsi in pubblico, a costo di essere continuamente perseguitati dai propri adulatori così come dai propri persecutori e odiatori.
Insomma, non è semplice. Tuttavia, si può stare certi, almeno da quanto vediamo sui cosiddetti “social”, che il bisogno di popolarità è fortissimo, probabilmente come mai lo è stato.
Oggi tutti, come già aveva giustamente preconizzato Andy Warhol vogliono, anche solo per breve tempo, apparire ed essere “pubblici”. Essere un personaggio pubblico è un bel salto di livello nella carriera odierna di un essere umano e quasi certamente, purché ciò corrisponda a realtà (consistente in numero adeguato di seguaci e adulatori), lo farà sentire assai meglio di quando era un semplice membro degli invisibili.
In un saggio recente (In I tabù dell’educazione) mettevo in guardia dal mito del successo, sottolineandone i tratti più bui, la dipendenza che ne deriva, la perdita del proprio volto, della propria privacy, la paura che la fama scompaia da un momento all’altro, il dover fronteggiare continuamente l’invidia, la gelosia, l’angoscia che chi ci ama ci ami non per ciò che siamo ma per la nostra immagine, i nostri denari o il nostro valore sul mercato. Le storie di troppi uomini e donne di successo è costellata di drammi, di tossicodipendenze, di deliri, di depressioni, di tragici finali per non suscitare timore la loro sorte. E tanto più è grande e tanto più sembra trascini con sé pericoli mortali, proprio come nei miti dell’eroe, nelle grandi e a volte precoci ascensioni che preludono a rovinose cadute.
E tuttavia il mondo della rete, dei social produce oggi una popolarità a buon mercato, misurabile in numero di like e follower. Ciò fa sì che un’infinità di persone si trasformino in imprenditori della propria immagine, cercando di valorizzarsi con una presenza continua sulla rete, infarcita di ogni tipo di messaggio. La sostanza conta poco, conta esserci, conta la veste, conta moltiplicare la propria presenza e guadagnare pubblico. Dagli influencer d’ogni risma ai giornalisti, ai politici, alle tik-toker o onlyfans ma anche ai docenti universitari, come pure a specialisti e produttori di ogni genere di tutorial, un’orda di cacciatori di follower si è messa in marcia verso la popolarità.
Il cercatore di successo ovviamente mira all’invito televisivo, si fa in quattro (blandendo, rendendosi appetibile, evitando di disturbare coloro che vuole conquistare) di qualche salotto mediale. E spesso, magari con la consulenza di qualche bravo fabbricante d’immagine e di pubbliche relazioni, arriva.
Conta poco la reale capacità, la competenza, conta non deludere i padroni dello show (o dell’istituzione) e, se possibile, avere qualche segno particolare che aiuti a “bucare lo schermo”.
Popolarità a buon mercato, la si potrebbe definire, che richiede tuttavia, riconosciamolo, un certo grado di lavoro. In presenza di un vero talento la determinazione, l’ostinazione, la tenacia, il non arrendersi, spesso portano risultato. Non per tutti ovviamente. Quasi tutte le storie di successo raccontano di sforzi non banali, di volontà, di resistenza alla frustrazione.
Per ottenere successo bisogna comunque essere costanti, avere la lingua lunga un metro, il sorriso sempre a portata, o anche la ghigna crudele e, quel che più conta, essere innocui (per il potere). Non esagerare, non oltrepassare quelle righe visibili e invisibili che perimetrano il mondo di chi può avere popolarità e quello di chi resterà marginale, in esilio, ostracizzato. A parte naturalmente chi non vuole in alcun modo diventare popolare. Gli esempi sono molti anche tra i grandi nomi (per esempio Salinger, o Pynchon).
Mi chiedo se la popolarità renda felici. Sicuramente incrementa l’autostima, probabilmente arricchisce, anche economicamente, favorisce gli incontri erotici suppongo (il che suscita invidia, lo ammetto), amplia la platea delle prede potenziali se non altro.
Non è un picciol risultato.
Penso anche a chi non “ce l’ha fatta”, come dice il personaggio di Jack ne La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam, un film che analizza bene il percorso di chi cerca la fama e ne viene distrutto, prima di poter rinascere ad una vita più autentica. Chi ci ha provato e niente, la fortuna, gli incontri, forse anche una certa ritrosia a vendersi non lo hanno favorito. Perché sia chiaro, occorre vendersi, occorre rinunciare a sé stessi. Bisogna accomodarsi alle richieste del mercato, di chi ti compra, di chi ti fa apparire, al punto di ridurre il proprio personaggio alle dimensioni lillipuziane che il copione richiede. Fino a non riuscire più a riconoscere chi si è: fino all’impossibilità di ritrovare la propria faccia, posto che sia mai esistita. Gli ambiziosi sono una razza, l’interesse per la sostanza di ciò che li rende famosi è del tutto periferico, ciò che conta è arrivare.
Beninteso, c’è chi la popolarità la conquista per merito, non v’è dubbio ma oggi mi pare sempre più raro, se si diventa popolari lo si diventa allineandosi, smussando le proprie spigolosità, rinunciando in gran parte alla propria differenza, sempre che non fosse già calibrata sul risultato, ab origine. Diventando “stupidi”, come avrebbe detto Bonhoeffer.
Penso poi ai tanti triturati dalla fama.
Povere star, povera Gene Tierney, così bella e sfortunata, tra un manicomio e l’altro, o Leonard Cohen che finì a farsi monaco a un certo punto, per venire fuori dalle sue dipendenze, o Cat Stevens, pure lui approdato alla religione per non finire nella disperazione. Ma quanti, quanti disperati, come quelli che si riducono a farsi affamare all’Isola dei famosi.
Che tristezza anche, che poca dignità, mi viene in mente quel timido di Carlo Emilio Gadda, il più grande scrittore del 900 italiano (a mio modesto giudizio ovviamente), che fuggiva da ogni mondanità, che rifiutava ogni invito, anche dai migliori amici. Mi viene in mente Cesare Pavese, o Bianciardi. Ma erano altri tempi. Diventare popolari non era poi così voluto. Molti preferivano fuggire dalla folla, dallo spettacolo, che ti divora, che ti strizza a poi ti getta via. C’era un’altra morale, Andy Warhol era poco conosciuto o non ancora apparso, la volgarità esibizionistica del nostro tempo era lontana così come i suoi strumenti tecnologici alla portata di tutti, l’idea di scrivere o apparire ogni giorno era del tutto sconosciuta. Tempi migliori?
Forse, non posso non pensare a un uomo come Nietzsche, che riuscì a scrivere, indefessamente, fino all’ultimo, contro tutto e tutti, solo e incompreso. Convinto di avere ragione. E l’aveva. O a Spinoza, costretto all’esilio, vissuto quasi in clandestinità. Penso a Van Gogh, solo e disperato, ad Artaud, che sputò in faccia a tutti il suo monologo Per farla finita con il giudizio di Dio. Chissà come sarebbero stati trattati oggi, chissà se avrebbero un sito, magari curato da un consulente d’immagine, se ci soffocherebbero come i tantissimi gnomi di oggi, con una sciocchezza nuova una volta al giorno, o magari anche due pur di esistere.
Pur di esistere, in qualche modo. Come tutti i personaggi tapini che infestano la scena.
Fino a che anche su di loro non cada l’oblio, un oblio plumbeo, compatto, in nome del quale hanno sacrificato amori, amicizie, il proprio tempo, non certo la memoria imperitura di uomini davvero straordinari come Nietzsche, o Artaud, o anche Carlo Emilio Gadda.
D’altra parte spesso l’opera, il grande pensiero, la grande creazione, si pagano con sofferenze indicibili. E chi vuole ancora soffrire?
È giusto così. Solo dobbiamo adattarci alla mediocrità o volgerci indietro, a leggere o ammirare coloro che hanno estratto dal loro sangue l’elisir che non si consuma.