Memorandum circa la pedagogia immaginale

Memorandum circa la pedagogia immaginale

Intorno alla pedagogia immaginale, per come l’ho intesa nei miei testi e in quelli di Marina Barioglio, che ha collaborato con me al suo approfondimento e alla sua diffusione, permangono diverse ambiguità, in parte ascrivibili alla complessità della materia ma anche agli autori che ne hanno costituito il riferimento e alle loro diverse sensibilità culturali.

Anzitutto la pedagogia immaginale è una via di conoscenza, non una filosofia morale né una psicoterapia più o meno spirituale.

La pedagogia immaginale intende proporre alla cultura contemporanea una diversa via di conoscenza, quella poetica o simbolica, accanto alle più battute vie scientifiche e filosofiche in senso stretto. La sua facoltà di conoscenza è l’immaginazione, riabilitata da molti autori dopo la crisi illuministica. Si conosce con l’immaginazione, non con l’intelletto né con i sensi.  L’organo conoscitivo è, in accordo con la fisiologia simbolica, il cuore. Vale a dire la sensibilità interna, che si coniuga con l’immaginazione creatrice per riconoscere l’impronta simbolica del mondo.

Coloro che sanno conoscere con l’immaginazione sono i creatori, gli artisti (quelli che davvero hanno la capacità di tradurre ciò che incontrano in una riformulazione poetica).

Non c’è metafisica, non c’è riferimento spirituale o teologico, benché uno dei riferimenti sia Henry Corbin e la sua opera di traduzione in Europa della filosofia mistica dei neoplatonici iraniani. La nozione di immaginale, già bonificata dal suo elemento mistico corbiniano con James Hillman, riguarda esclusivamente il regno intermedio delle immagini, immagini potenti, intense, simboliche, come sono quelle che gli artefici immaginali, i poeti e gli artisti sanno trarre dall’esercizio paziente e insistito dello sguardo, del guardare e riguardare il mondo e i suoi elementi fino a vederli.

Questa è una conoscenza visionaria, che richiede da parte del soggetto che vuole conoscere una posturaspeciale, da me chiamata ricettiva o diffusa, la lenta ponderazione della singola cosa che entra nel nostro sguardo, affinché essa si sveli e si riveli.

Come diceva Rainer Maria Rilke, il compito dell’artefice è rendere sempre più invisibile il visibile, cioè strapparlo alla visibilità consuetudinaria e schematica dello sguardo frettoloso e predatore e restituire l’oggetto della visione alla sua “distante intimità”.

La distante intimità è la giusta distanza, distanza metaforica, in quanto il veduto non deve essere posseduto da chi guarda ma custodito nella sua singolarità, intimità in quanto essa è la figurazione nascosta che deve essere accolta da uno sguardo ricettivo.

La cosa che viene “ritratta” dall’artista (che sia egli pittore, musicista, cineasta, fotografo, poeta ecc.), guardata secondo un’attenzione diffusa, svela la sua intimità, che è altro dal visibile, è la sua natura simbolica, la sua connessione reticolare con la tela del sensibile. Connessione che si rende percepibile proprio ad uno sguardo diffuso, non predatore, non strumentale, non profittatore ma accogliente, non giudicante.

Non vediamo più il visibile nella postura immaginale ma ci convertiamo simbolicamente all’ente percepito. La conoscenza immaginativa è un sim-boleggiare, conoscenza partecipativa, che l’artefice sperimenta e poi cerca di restituire nella forma di un linguaggio poetico, l’unico linguaggio che non tenta di impossessarsi, di spiegare, di definire il suo oggetto.

Si conosce il mondo con il cuore quando si esclude l’arroganza definitoria e esplicativa della ragione e ci si affida a quella torsione dello sguardo di cui parla ancora Rilke. Si percepisce con la coda dell’occhio, non si guarda frontalmente (Heidegger), si coglie la ramificazione cui ogni cosa appartiene nell’organismo del mondo, compresa quella che la allaccia a noi. Sperimentando la condizione profonda di armonia e disarmonia, di assonanza e dissonanza, di connessione e di lacerazione che ogni ente vive spesso anche in virtù del nostro intervento.

Entriamo in contatto, grazie ai grandi artefici, con quello che Rilke chiama lo spazio interiore del mondo, la sua intimità più integra, ma solo a patto che anche noi, nel ri-guardare le loro opere, abbandoniamo la postura di chi vuole spiegare, usare, definire.

Pedagogia immaginale quindi è un altro modo di conoscere, una conoscenza con l’occhio del cuore, come diceva Hillman, una cognitio vespertina, una conoscenza minore e umbratile, capace di accogliere l’intimità delle cose e sentirla, immaginarla. L’unica conoscenza che non violenta il mondo e non cerca di dominarlo.

Conoscenza che scaturisce nell’attesa e nella lentezza, come quella che ci consegna Zoran Music quando si ferma tra le rocce del Carso e racconta di come la sua immobilità, dopo un certo tempo, permette ad ogni cosa di risvegliarsi: una farfalla si posa sulla sua mano, un porcospino esce allo scoperto, gli uccelli intrecciano ora i loro dialoghi liberi perché la sua minaccia predatrice si è zittita.

Una conoscenza che è un ri-trarsi, per ri-trarre, perché una presenza piena possa apparire e non solo il lato “interessante” o “utile”, come vorrebbe lo sguardo strumentale, che asserve il mondo.

Pedagogia immaginale è una via di conoscenza per reimparare ad abitare la terra, poeticamente(Hölderlin), l’unico modo che non ne abusa. L’uomo contemporaneo ma anche quello moderno hanno perso la sensibilità immaginale e infatti il mondo si corrompe, perde misura, perde ogni armonia.

La pedagogia immaginale in questo senso è condizione per la cura (comprensione) del mondo. Le immagini permettono a chi sa vederle, come gli artefici hanno saputo vedere il mondo, di riabitare le cose, le relazioni, le connessioni.

L’uomo e le cose hanno un’intimità integra così vasta che nessun algoritmo può esaurirla e l’occhio immaginale coglie il reticolo delle connessioni in un modo che nessun occhio scientifico potrà fare.

C’è più conoscenza in una tela di Cezanne o di Bonnard o di Soutine, in una poesia di Baudelaire o di Sylvia Plath, in un film di Tarkovskj o di Lynch, in una musica di Stravinsky o di Brahms o di Ligeti che in una dimostrazione scientifica o in una proposizione teoretica.

Una conoscenza integra, erotica, emozionata, attenta alla misura della prossimità e della distanza, della comprensione diffusa, della ricezione sensibile.

L’espressione anima, spesso utilizzata per parlare di quella intimità, va intesa nel senso di Hillman, come prospettiva sulle cose, prospettiva simbolica, notturna (Gilbert Durand), sempre consapevole della finitezza di ogni comprensione, onirica, femminile. Non anima nel senso di sostanza, anima come metafora della peculiare vocazione di ogni cosa che solo uno sguardo immaginale può cogliere.

Fare anima significa, come spiega Hillman, scendere nel cuore delle cose attraverso la nostra sensibilità poetica, attraverso la nostra attenzione immaginativa, scendere nell’inconoscenza simbolica, non salire in una visione spirituale sintetica. Accondiscendere, farsi humus, non incielarsi.

L’anima chiede la ferita. La ferita costringe a scendere, a sostare, ad approfondirsi. A interrompere l’affaccendamento sempre più vorticoso dell’individuo. Costringe a chiedere aiuto o comunque a fermarsi. La poesia addensa e cristallizza, come la ferita che ha trovato il suo vaso di contenimento. I grandi artisti sono spesso feriti, senza ferita difficilmente c’è profondità.

Il riferimento all’alchimia non è da intendersi come richiamo a una via di distillazione spirituale né a un primo dominio della natura, come sosteneva Eliade. L’alchimia è un invito a uno sguardo secondo natura(Françoise Bonardel) a compiere il ciclo della trasmutazione simbolica per cui si cerca di conciliare il soggetto con il mondo in una pratica di accondiscendenza al suo richiamo: come diceva Joë Bousquet, si tratta, come fanno gli artisti, di compiere ciò che si contempla.

La pedagogia immaginale non è una via spirituale, non è una mistica, non è una psicoterapia.

Semmai aiuta a prendersi cura del mondo, ma solo in virtù di un percorso ermeneutico debole quanto ostinato che ognuno deve fare seguendo le tracce dei grandi artefici, sempre più misconosciuti, sempre più traditi anche da creazioni che barattano l’immaginale con lo spettacolo, con il ragionamento, con la didascalia.

Probabilmente la pedagogia immaginale è un’ermeneutica simbolica dell’arte. E anche un’estetica, nella misura in cui si potrebbero abbracciare le parole di Gaston Bachelard: prima ammira poi comprendi.

Riferimenti:

P.Mottana, L’opera dello sguardo, Moretti e Vitali, 2002

P.Mottana, La visione smeraldina, Mimesis, 2004

P.Mottana, L’arte che non muore, Mimesis, 2010

P.Mottana, Cauda Pavonis. Trasmutazioni per mezzo dell’arte simbolica, Mimesis, 2021

P.Mottana-M.Barioglio, (a cura di), Mèntori immaginali, Moretti e Vitali, 2005

M.Barioglio, Nel regno dell’immaginazione, Moretti e Vitali, 2008

M.Barioglio (a cura di), Eros Corpo Notte, Mimesis, 2010

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One comment on “Memorandum circa la pedagogia immaginale”

  1. Chiara

    Tutto il mondo avrebbe bisogno di una bella, prolungata, densa e profonda immersione nella pedagogia immaginale

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