Mettersi a nudo davanti ai profughi, i tanti profughi

Mettersi a nudo davanti ai profughi, i tanti profughi

Questo problema dei migranti, dei profughi, dei clandestini, chiamiamolo come vogliamo, sta mettendo a nudo tante contraddizioni. Sotto questo profilo, non è soltanto un’emergenza democratica, umana, come si dice ma anche una grande occasione per interrogarci su chi siamo, o chi siamo diventati, su come stiamo, dove stiamo andando, se da qualche parte stiamo ancora andando.

E’ di questi ultimissimi giorni la notizia, probabilmente vera, ma non è poi così importante, che il quotidiano Il Tempo abbia finto di chiedere, mediante una presunta ONG, ad alcuni famosi firmatari di appelli per la difesa dei migranti, se sarebbero stati disponibili a ospitarne uno, per un certo tempo, a casa loro.

Le risposte sembrano essere state, tranne qualche rara eccezione, quasi sempre no, con svariate motivazioni.

In realtà a me poco importa cosa abbiano detto costoro, però credo che questa sia una domanda molto seria e, per così dire, decisiva, per tutti.

Siamo disposti a ospitare nelle nostre case dei migranti, dei profughi? E per quanto tempo? E con quante cure?

E’ la domanda chiave dell’ospitalità, quella che davvero sonda la nostra presunta “umanità”, posto che l’umanità sia qualcosa di più nobile del nostro normale egoismo di esseri umani che da sempre sulla terra, tranne rare eccezioni, non si sono preoccupati granché dei loro simili e meno che mai dei loro dissimili.

Ma affrontiamola questa domanda. Perché è vero, diciamolo senza polemica, firmare appelli, indossare magliette, fare manifestazioni, indignarsi, rilasciare interviste infuocate, è un conto. Ospitare profughi, accoglierli, fare i conti, qui sì, con la loro quotidiana alterità, è un altro.

Certo, conosco persone che lo fanno, persone che si sono votate a questa causa, che ne hanno fatto il perno delle loro vite, anzi che ne hanno spesso fatto un distintivo, un’onorificenza da esibire ad ogni piè sospinto. Sono gli eroi dell’ospitalità, i “più buoni”, come li chiamava Gaber. Ma sono pochi, molto pochi e anche loro, forse, hanno trovato un modo così di dare un senso a vite che non trovavano il proprio bandolo. Ma non voglio permettermi di giudicare, per carità. Onore a loro, tanto di cappello.

Ma guardiamo noi stessi. Anzi, mi guardo io. Vorrei a casa mia un profugo? Lo vorrei davvero? Fino in fondo? Mi piacerebbe?

No, non ne sono affatto certo. Sì, probabilmente lo farei, sotto la pressione dell’idea, dell’immagine, delle necessità morali cui il mio super-io mi intimerebbe di sottomettermi. Ma io, seriamente, lo vorrei? Senza poterlo scegliere, adattandomi a chi arriva, preparandogli il letto, cucinando per lui, accompagnandolo magari a fare delle

visite mediche, prestandogli del denaro, facendogli usare la mia doccia, il mio bagno, la mia cucina? Senza contropartita, per puro spirito di ospitalità, per desiderio di solidarietà, per amore del prossimo? Lasciando che occupi il mio tempo, il mio spazio, la mia intimità?

Lo farei davvero con piena accettazione? No. E’ evidente. Forse un bambino, una bambina, è più appassionante. Più intenerente. Ma un uomo adulto, magari malato, magari sporco, magari incapace di comunicare con me. Sarei davvero disposto ad accoglierlo?

Quanti di noi saprebbero fare come Giovanni l’ospitaliere ed abbracciare il lebbroso? Togliersi la maglietta rossa e non solo abbracciare il profugo ma portarlo a casa propria, nutrirlo, accudirlo, cercargli un lavoro, chissà.

E’ una bella domanda, una domanda decisiva. Magari sì. Magari sarebbe più facile portarsi a casa uno sconosciuto che un parente sgradito, magari anche un genitore che non sopportiamo più e che sta male, come facciamo sempre più spesso con i nostri vecchi o i nostri parenti, o persino con i nostri amici, quando stanno male e diventano un po’ profughi, soli, depressi, noiosamente avvinti ai loro problemi.

Forse sarebbe più facile accogliere un profugo siriano o libico di un profugo che ci è vicino. Che viene a disturbare la nostra intimità, la nostra trincea, la nostra silenziosa piccola tana dove possiamo fare la guerra a tutto e a tutti, però al riparo, lontano dal male e respingendolo a distanza di sicurezza. O semplicemente i nostri ritmi sfrenati di rincorsa del successo.

Accogliere un profugo è d’altra parte un atto politico, andare a portare la pace o le cure in qualche paese lontano, che non conosciamo, con spirito missionario, è eroismo, è anche avventuroso, attrae il rispetto, il plauso, il consenso.

Accogliere l’altro, l’amico, il parente, il vicino che sta male, che sentiamo piangere oltre la parete, un padre e una madre che ci triturano con la loro incomprensione, quello no. Quello è un fardello eccessivo.

O lo sono entrambi? O in verità non vogliamo né gli uni né gli altri, vogliamo solo i nostri simili, quelli speculari, che ci mettono like e cuoricini su fb, e comunque non troppo a lungo, che poi puzzano?

Chi siamo noi veramente? Cosa vogliamo? Come ci rapportiamo ai nostri profughi interni, ai nostri migranti, ai nostri Rom? Quelli che abbiamo dentro? Gli diamo rappresentanza, li ascoltiamo, li ospitiamo, o facciamo finta di non vederli, di non sentirli, come facciamo con l’ennesimo venditore di rose che disturba la nostra cena?

Siamo generosi con i profughi! Li vogliamo tutti qui, pronti a spalancargli i nostri usci, a riverirli, ad amarli con tutto il nostro cuore! Noi che siamo abbastanza ricchi per farlo, o abbastanza nudi per farlo. Siamo abbastanza nudi? E ricchi? Di supposta umanità?

Facile “lavorare” con i migranti, quando si è pagati per farlo. Meno facile portarseli a casa, a meno che non siano carini, si intende, e interessanti, e affascinanti. Come una conchiglia esotica, una scultura africana, una danza sufi.

Prendiamoli a casa prima di indossare la maglietta rossa. Diamo il buon esempio a tutti gli ignoranti e i fascisti che abitano nelle banlieue nostrane e che non li vogliono in giro, che già fanno fatica ad avercelo un appartamento decente, figuriamoci condividerlo con una banda di clandestini, o di profughi!

Siamo l’avanguardia dei diritti umani, prendiamoli nei nostri letti, usiamo le nostre lenzuola migliori, quelle del matrimonio, diamogli i nostri vestiti, dividiamo la nostra mensa, noi che siamo “umani”, invece dei “mostri” che li vogliono scacciare.

L’ospitalità è davvero l’analizzatore del nostro grado di umanità, o fraternità, meglio, poiché gli umani non sono proprio esseri rassicuranti. Ma come la mettiamo allora con le altre fraternità? Saremmo disposti ad accogliere in casa un leghista, di quelli ignoranti e facinorosi, di quelli brutti, di quelli sporchi che affollano i bar dei piccoli paesi della Brianza, sorseggiando un bianchino mentre sparano insulti verso i negri, i ladri, i politici?

Quanto siamo umani con tutti gli altri che ci fanno schifo, i fascisti? Forse dovremmo fare esercizio di accoglienza dei fascisti prima che dei profughi, per allargarci, per non essere “ideologici”, per accogliere quelle parti di noi che ci rifiutiamo di vedere, almeno fino a che non sono i nostri parenti o i nostri amici a chiederci ospitalità con la faccia da profughi, da derelitti, da depressi.

Cosa vuol dire ospitalità, cosa vuol dire accoglienza, per chi e quando e come? Chi è l’altro? Chi è titolare di “diritti umani”?

Forse porsi radicalmente qualcuna di queste domande decisive, almeno per non arrivare a sputarsi in faccia, da soli intendo dire, non sarebbe una cattiva idea.

Mettiamoci bene a nudo, guardiamo giù in fondo a noi stessi. E poi credo che potremo parlare con un minimo di cognizione.

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5 comments on “Mettersi a nudo davanti ai profughi, i tanti profughi”

  1. andrea

    Tutto molto giusto, ma forse troppe cose nel piatto. Intanto la domanda iniziale: siamo disposti a ospitare uno straniero? A dargli il letto, assistenza, aiuto materiale ecc.? Io per mio conto rispondo no, però non credo che sia questo il problema, che sia questa la domanda da fare a chi indossa la maglietta rossa. La domanda è: sei disposto ad abbandonare la tua casa con cap 20121 per trasferirti in una (anche altrettanto ben arredata, non importa) ma con cap 20139 (Corvetto), o 20141 (Ripamonti), 20142 (Gratosoglio) ecc. ecc.? Perché la prima e più immediata condivisione e ospitalità avviene nel territorio, nella disponibilità a dividerlo con altri: altri odori, altri negozi, altri rumori, altre lingue. E questa ospitalità forzata è quella con cui chi abita fuori della cerchia dei navigli si confronta ogni giorno. Viverci forse aiuterebbe a capire perché poi votano Lega. Oppure la domanda, più perfida e sottile, dovrebbe essere: sei d’accordo che all’interno della cerchia dei navigli siano allestiti centri di accoglienza o meglio ancora appartamenti e case date in affitto a siriani, libici, etiopi, nigeriani, arabi ecc. ecc., ossia: sei d’accordo che la presenza degli stranieri non sia più solo l’africano che chiede l’elemosina nelle vie del centro, ma lo straniero che ci vive?
    Chiedere di ospitare in casa gli stranieri, gli altri, ossia in fin dei conti di fare i conti con la propria diversità sempre tenuta sotto controllo, credo sia chiedere un po’ troppo. Oppure sì, è la domanda giusta, ma non so se sarebbe utile per la sorte concreta dei migranti: da un’analisi spietata del nostro più profondo senso di accettazione dell’alterità, della nostra alterità, potrebbero saltar fuori cose che non vorremmo vedere e che magari ci porterebbero a buttarli in mare. E d’altra parte, chissà quanto odio ispiriamo noi occidentali, noi che ostentiamo il nostro benessere via satellite in ogni angolo del mondo, offrendo a tutti – bambini denutriti, uomini sdentati, giovani donne precocemente avvizzite – pubblicità di allegre famiglie, case meravigliose, anziani pieni di vitalità, animali domestici coccolati e nutriti in abbondanza. Siamo gli uni la parte oscura degli altri e come ammoniva Obi-Wan Kenobi, quando si passa al lato oscuro non si sa come se ne esce 🙂

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    • wp_8552554

      Condivido molto ciò che dice ma credo che i conti con il grado di ospitalità del nostro mondo interno resti una questione preliminare ineludibile. Grazie comunque dell’interessante riflessione

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  2. Riccardo Pantusa

    Una riflessione interessante ed opportuna sul piano personale. Credo però che una risposta “decente” sul piano politico, l’Italia, l’Europa, l’Occidente la debbano pur dare, non solo perché, quasi sempre, hanno in qualche modo perlomeno contribuito all’origine del problema.

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  3. Paola Rezz

    Le contraddizioni stanno a monte. Se tu da occidentale ti poni il problema cristiano dell’ospitalità, che per l’occidentale non è semplicemente la disposizione caratteristica di ogni antica comunità, ma qualcosa di molto più radicale ( un islamico è ospitale ma non offrirebbe se stesso come animale sacrificale effettivo o simbolico) allora allora ecco che ti guardi dentro e scopri il pericolo, il timore, l’orrore addirittura. La radice della nostra ospitalità, anche nelle smunte versioni laica contemporanee è sempre quella cristica e non quella greca o cinese. La nostra apertura verso l’altro è qualcosa di terribile e sconvolgente e ancora oggi ne constatiamo la drammatica e affascinante realtà. Il cristianesimo ci ha strutturato conscio e subconscio, dunque inutile eludere il nocciolo della questione. Se non si ha un prospettiva trascendente, postuma della vita, il senso di questa tragedia cristica necessaria è solo una messa in scena, un equivoco, anche se le conseguenze sociali e psichiche non per questo divengono evanescenti, tutt’altro. Visto che chi spesso sostiene l’apertura verso l’altro perde sovente di vista il rischio enorme dell’identità, ecco che le viscerali ma neanche tanto, reazioni sociali catalizzate dalla politica attuale non sono affatto forme da catalogare superficialmente ne da condannare come fanno gli stupidi, sovente con una finta e superficiale “carità”. La società occidentale resta cristiana, di un cristianesimo alterato, ma resta codificata in esso e la componente greca non può eludere definitivamente la parte semita ormai elemento integrante anche del più ateo degli atei occidentali. E allora, se la parte semita, che contiene l’elemento sacrificale come imprescindibile in vista dell’efficacia del paradigma cristico, quando il rito e il simbolo cristico non viene più vissuto dalla collettività come effettivo, quando la prospettiva ultramondana è dismessa, rimane un simulacro, un’apertura senza progetto e prospettiva, una contaminazione pericolosamente autodistruttiva. La pancia del popolo sente questo pericolo e reagisce. Le gesta cristiane citate come esempi difficili, erano messe in atto solo da “santi” pronti al martirio interiore e/o esteriore. L’ordine sociale cristiano non ammetteva islamici in presenza massiccia perché conosceva la necessità primaria dell’identità del popolo di credenti. Persino Cristo lo sapeva, infatti l’organizzazione di una civiltà cristiana non può essere alla lettera quella dei dodici discepoli che eccetto uno, morirono martirizzati. Smettiamola con l’intellettualismo inutile e superficiale e guardiamoci realmente dentro, ma anche pensiamo alle necessità dell’organizzazione della vita terrena. La vita terrena, anche vissuta in maniera cristiana ma concepita come comunità larghe non potrà mai essere quella dei martiri e degli asceti. La contraddizione cristica sta appunto nell’essere il suo paradigma con un piede nel mondo terreno e con l’altro nel mondo postumo della salvezza. L’occidente è volente o nolente erede di questo paradigma. La coscienza che si interroga deve però riconoscere che se non si riesce ad ammettere la trascendenza, il paradigma diventa un ordigno distruttivo. Il sacrificio è solo un suicidio, perché l’umanesimo non ha equilibrio, non regge il peso che vorrebbe sostenere se da una parte la tensione verso la trascendenza è annullata, e nel contesto storico attuale non può che essere così, dunque resta la tecnica, ossia la scienza e il suo paradiso, ma nella coscienza continua a pesare la fortuna dell’apertura della mente e dell’anima all’altro, al possibile orizzontale e infero e questo non promette più nessun medioevo, nessun rinascimento, ma solo un era inquietante e perennemente instabile.

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