Educazione diffusa

Educazione diffusa

Richiamare bambini e ragazzi nella vita sociale

Ora io non vorrei fare l’archeologia dell’internamento dell’infanzia e poi della gioventù nelle strutture di disciplinamento e di istruzione. E’ relativamente cosa nota, certo complessa, ma ormai nota.

Per i processi di creazione e privatizzazione dell’infanzia come stagione storicamente definita e separata, si veda Aries ma anche lo splendido Emilio pervertito di René Schérer. Non c’è molto altro da aggiungere.

Mi interessa ora però parlare dell’adesso. Dell’internamento dell’infanzia adesso, della loro messa fuori gioco, del loro mondo a parte.
Perché i bambini fanno tanto problema? Perché lo fanno gli adolescenti?

Alcune risposte banali:
1) uomini e donne devono produrre, dunque i bambini bisogna metterli da qualche parte (banale e superficiale, nel senso che poi resta necessario discutere su quale tipo di occupazione dell’infanzia predisporre)

2) la civiltà protegge bambini e adolescenti dallo sfruttamento (già meno banale ma parziale: per es. il loro inserimento sociale dobbiamo per forza immaginarlo sotto la voce dello sfruttamento? Il che peraltro, implicitamente avvalorerebbe l’idea che appena fuori dalle protezioni dell’infanzia e dell’adolescenza tutti siano vittime dello sfruttamento, il che in effetti è tutt’altro che banale)

3) I bambini e gli adolescenti devono attraversare un lungo percorso di formazione in luoghi adatti (qui la risposta è semplicemente interrotta perché allora si può facilmente ribattere che l’internamento scolare non è affatto la risposta adatta per la loro formazione: e si vedano i moltissimi che lo sostengono da molto più di un secolo a questa parte, da Fourier a Papini a Gray, per citare figure non necessariamente pedagogiche)

4) Occorre affidarli ad adulti qualificati per insegnare (viziosa, perché in primo luogo occorrerebbe chiarire assai meglio in che modo gli adulti possono essere dichiarati qualificati, e sappiamo quanto questo sia complesso. In secondo luogo, anche concesso che debbano essere affidati a tali adulti, resta il problema del dove e del come, su cui si può molto discutere)

5) Il movimento sociale di bambini e ragazzi in un territorio pensato sempre di più per l’esclusivo moto accelerato delle merci e per le attività di produzione e consumo, diventa ostacolante e pericoloso (è l’unica risposta sensata, che spiega perché i bambini e i ragazzi debbano essere rinchiusi dentro grossi edifici obitoriali e possano uscirne solo ad orari prestabiliti e sotto custodia)

Divenire adulti, in altri termini, significa avere gli strumenti per potersi orientare in uno spazio tempo assediato dal mercato delle merci e dalle sue prescrizioni e saper sopravvivere al suo ritmo e al suo moto veloce e pericoloso.

Io credo che noi dobbiamo porci con grande serietà e radicalità il problema di come reimmettere bambini e ragazzi ( e perdonatemi se non inserisco ogni volta la specifica femminile, bambine e ragazze, che dò per implicita) nel circuito della vita sociale, a pieno titolo.

Una delle mie similitudini preferite è: se un animale cresciuto in cattività ha scarse possibilità di essere reinserito nel suo habitat, perché lo dovrebbe avere un bambino o un adolescente, ugualmente cresciuto in cattività?
E non solo la cattività delle istituzioni ma anche quella degli spazi domestici, dove si consuma, oltre che la sua domesticazione, anche la sua definitiva privatizzazione.

La società ha deciso di rinunciare a una fetta molto cospicua di contributo sociale, quello dei suoi “minori”. Noi consideriamo “minore”, per una convenzione molto discutibile, gli esseri umani al di sotto dell’età anagrafica dei 18 anni. E adatti per attività lavorative solo chi ha superato i 15 anni (il 15% circa della popolazione).

Encomiabile certamente ma non rischiamo di sottovalutare il potenziale di energia vitale che potrebbe essere espresso da questa cospicua fascia di popolazione?

Intendiamoci, nessuna idea di pompaggio di risorse o di “capitale umano” a fini produttivi, espressioni che aborro, ma piuttosto diffusione di sensibilità, di creatività, di ludicità, di immaginazione, intuizione ed emozione di cui questa età è ricca e che invece viene fatta marcire dentro i muri deprimenti e castranti delle nostre scuole.

Bambini e ragazzi reimmessi nella vita del mondo, riammessi a partecipare, a cooperare, a discutere e a decidere, ma soprattutto a esprimere, nel loro linguaggio, un volto del mondo che è stato completamente posto a tacere (con gravissimo nocumento per tutti noi). Di questo hanno bisogno loro e abbiamo bisogno noi.

Io non ho difficoltà a immaginare bambini e ragazzi che circolano nel mondo con i loro tempi, con i loro veicoli e altri che si potrebbe facilmente predisporre (piccoli bus elettrici, ferrovie urbane simili a quelle dei parchi naturali, risciò, oltre naturalmente a biciclette pattini e ogni altro mezzo compatibile). Non ho difficoltà a immaginarne la partecipazione, ad occuparsi non solo di quello che riguarda loro ma anche di quello che riguarda noi, animando la vita delle città e dei paesi, occupandosi di manutenzione e abbellimento, di cura, di servizi per le persone, di presenza, di attenzione, di ricerca, di esplorazione, di un apprendimento che prende occasione da grandi e piccole cose, da ambienti predisposti e ambienti reali, da maestri qualificati e maestri di strada e di bottega, di officina e di studio, di istituto e di impresa.

Ragazzi e bambini sparsi nel mondo sarebbero un modo per ringiovanirlo, per costringerlo ad altri ritmi, ad altre esigenze, a prendere in considerazione il lato giovane, nuovo, possibile degli esseri umani, la debolezza necessaria, la creatività ancora non addomesticata, i desideri ancora non castrati per ripensarsi e ricrearsi, abbattendo finalmente i muri, non solo quelli degli istituti di internamento ma anche quelli tra età, tra generi, tra professioni, tra discipline, tra luoghi e specializzazioni, tra ruoli e persone e così via.

Non sarà forse questa la rivoluzione autentica dei bambini? Non un posto a loro dedicato, un nuovo ghetto, per quanto dorato, come tante esperienze anche belle ma fuori dal mondo spesso ci mostrano ma la loro reimmissione nel tessuto sociale, accanto ai grandi, ai loro prossimi per età un poco più avanti e un poco più dietro (non indietro, solo dietro per classe anagrafica), accanto ai vecchi, per colorare, intensificare, scuotere una vita sempre più omologata, accelerata, priva d’anima e di bellezza, priva di stupore e di freschezza che loro ci possono aiutare a ritrovare a patto che non li si imbalsami ancora dentro le maglie di procedure, regole, normative e sanzioni che ne soffochino l’immenso potenziale.

Questa sarebbe un pezzo di ciò che io chiamo “educazione diffusa” e che con l’amico Giuseppe Campagnoli (a cui ho anche rubato l’immagine), , proverò a sostenere, anche con l’imminente pubblicazione di un libro a doppia firma e poi anche di un altro, d’ora in avanti. Perché credo che sia ora di finirla, una volta resa la dovuta gratitudine ai benefici sempre più remoti che la scuola ha anche apportato, di tenere ragazze e bambine (valga la premura reciproca di ampliare i generi), -le loro speranze, i loro corpi, le loro menti fervide, la loro creatività e i loro desideri-, fuori gioco, tappati dentro aule muffose dove tutta questa ricchezza si intristisce e si spegne, senza poter dare frutto (con buona pace degli amici insegnanti che potrebbero fare molto meglio in luoghi più adatti e vivificanti).

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