La mistificazione ideologica dell’alternanza scuola-lavoro

La mistificazione ideologica dell’alternanza scuola-lavoro

La proposta dell’alternanza scuola-lavoro, paradossalmente ma non troppo, è un’eredità del modello marxista dell’educazione, dal momento che, come noto, il nesso tra istruzione e lavoro (il lavoro in fabbrica) è stato a lungo considerato ( e si veda il lavoro di Manacorda che cita lo stesso Marx e in seguito di Labriola e altri) un modo per spezzare la divisione tra lavoro intellettuale e manuale e raggiungere la figura dell’”uomo onnilaterale” che tanto spazio ha avuto nelle idee marxiste sull’educazione.

 

Quindi, da un certo punto di vista, si tratterebbe di una pratica dal volto umano, ben diversa da come appare oggi nelle critiche, peraltro sacrosante, che studenti e osservatori più attenti, fanno alle forme di alternanza scuola-lavoro sempre più diffuse nelle nostre scuole.

 

Ovviamente il quadro è mutato, e fin troppo facile osservarlo, qui non si tratta più di saldare una rottura che era anche una rottura di classe all’epoca, non si tratta più di compensare con l’esperienza della fabbrica e della vita operaia un’esperienza di conoscenza aristocratica e individualistica. La figura dell’intellettuale operaio o del prete operaio che tanta fortuna ha avuto nella storia della cultura marxista, sembra ormai il ricordo di un remoto passato.

 

Oggi non esiste quel luogo di educazione politica e di esperienza collettiva che è stata in certe stagioni la fabbrica. Oggi esiste, come tutti sappiamo un mercato del lavoro polverizzato in una infinità di contesti del tutto eterogenei e nei quali certo c’è poco da imparare se non l’arte della sopravvivenza a suon di controllo, ricatti e continue valutazioni individuali.

 

Chiaro che questa pratica, in questa forma, non ha alcun senso formativo, se non nel senso di un addestramento al peggio. Chiaro che il suo scopo, del tutto esplicito tra l’altro, è quello di far assaggiare la durezza del mondo del lavoro ai più giovani, inoculandogli l’ansia e la disperazione che aleggia in questi luoghi perché introiettino l’idea che per lavorare si deve essere disposti a tutto, che non c’è comprensione né solidarietà, che nel precariato vince chi è più forte e chi arriva prima, che insomma quello che finora hanno provato a scuola è solo una lunga massacrante esercitazione in luogo protetto ma che il bello deve ancora venire.

 

L’alternanza scuola-lavoro non credo d’altra parte che sia un supporto di lavoro gratuito al mondo delle imprese. O meglio forse c’è anche questo ma è un elemento periferico. Qui, come ormai del resto ovunque, dai media alle scuole stesse alle università, lo strumento dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato è solo un anello di una catena ideologica che vede indebolirsi sempre di più il ruolo della cultura, amplificarsi a dismisura quello della preparazione tecnica o comunque professionale, accumularsi sui giovani la minaccia costante che, in assenza di un adattamento senza se e senza ma alla macchina dello sfruttamento, dell’adeguamento a richieste di cui non è affatto necessario chiedersi il significato, dello spappolamento delle forme di solidarietà sociale e delle prospettive di bene comune, si finirà molto male, come del resto ormai capita a chiunque tenti di sottrarsi a questi veri e propri dispositivi di controllo, di giudizio e di sanzione continua.

 

Chi non si adatta è perduto, questo accade nelle scuole e in particolare nelle università, dove l’intimazione alla professionalizzazione, alle logiche quantitative e ai criteri scriteriati della produttività a puri fini finanziari (racimolare finanziamenti a qualunque costo, specialmente culturale) è ormai l’unica logica accettata.

 

Sempre di più e sempre prima si tratta di capire che il tempo delle idee, della discussione libera, delle sperimentazioni, dello studio, della cultura, della critica sociale è finito. E i ragazzi ormai lo imparano fin dall’allattamento, con lo stupro pubblicitario del loro immaginario, con la pervasività di un incitamento costante al consumo di checchessia, contemporaneo alla normalizzazione dei comportamenti e al silenziamento della ragione critica nella scuola, con il messaggio che il lavoro quale che sia è l’isola del tesoro e che per esso si deve essere disposti a vendere l’anima, la salute e anche la dignità.

 

Di questo occorre fare denuncia, della violenza insita sintomaticamente nell’alternanza scuola-lavoro ma che si esprime in un’infinità di altre forme e che non ha di mira solo i giovani ma tutti coloro tentino di opporsi a un train de mort sul quale sembra che tutti siamo saliti pena rimanere ancor più soli e disperati di quelli che tanto si affannano a dimostrare ogni giorno che loro sono fitted per il futuro, conformisti, capaci di realismo, di pragmatismo, di hara kiri umano e di prostituzione quale che sia.

 

Ad essa l’idea di un apprendimento fondato sull’esperienza, esperienza aperta, molteplice, critica, cangiante nel mondo sociale e lavorativo ma non certo come servi che devono apprendere ad adattarsi ma come esploratori, osservatori, ricercatori che è uno degli aspetti costitutivi dell’educazione diffusa, mi pare una risposta capace di ritrovare l’aura dell’antica idea dell’onnilateralità marxista insieme a quella di spezzare la trappola micidiale che i sistemi di potere e i loro stakeholders hanno organizzato in reticoli sempre più fitti per fottere, come sempre, la vita ahinoi a tutti, loro compresi.

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