Altra incursione “sui generis” e sul femminismo maschilista

Altra incursione “sui generis” e sul femminismo maschilista

Con l’irruzione della legge del consenso sembra che prima di andare a letto si debba stendere un contratto (persino la buonanima di Sacher-masoch, che pure se ne intendeva, si rivolterebbe). Erotismo e contratti, con buona pace anche di Michel Onfray, mi pare stiano in mondi incompatibili, a parte che nella conclamata perversione, per questioni di sopravvivenza. Anche la famosa eumetria (sempre Onfray e altri) è una beata utopia. La passione non può essere imbrigliata in un reticolo di atti formali di non belligeranza, pena la sua estinzione e la sua sostituzione con una ginnastica sicuramente benefica e ortopedica ma priva di qualsiasi appeal.

Aggiungo: l’amore non è etico, sorry. Non è morale, non è innocuo, non è domabile né recuperabile, l’amore (Eros) è quella porta che non ci appartiene attraverso cui tocchiamo e “siamo infinito”. Prendergli troppo le misure rischia di soffocarlo. E una pedagogia erotica non se lo può permettere.

In guardia comunque nel tempo sui generis. Ogni comunicazione tra sessi, sempre poi che si sappia di quali si tratti (spesso si raggiungono livelli di complicazione quasi inestricabili, specie se ti imbatti nelle sottocategorie del transgender, dell’intergender e degli asessuali), è una trappola.

Certo, come sostiene la filosofa Luisa Muraro: ““Se nominiamo al maschile

le donne che sono nei posti di comando, che messaggio diamo? Che il femminile è

buono per sgobbare (contadina, operaia, commessa…) ma non per dirigere?”. Sappiamo che il genere è discriminato nel linguaggio e nella società, che esiste un linguaggio sessista, che la lingua è sessuata e che dal 1987 almeno esistono delle Raccomandazioni per l’uso non sessista della lingua italiana firmate da Alma Sabatini. La lingua cambia con il suo uso. Cambia con il cambiamento della cultura e dunque man mano che le donne si impongono in tanti settori fino a oggi o a poco tempo fa monopolio maschile, imporranno la loro lingua e il loro genere. Surrettizio appare però il tentativo di introdurre forzatamente una sorta di femminile inclusivo che poi diventa paradossalmente esclusivo dove la lingua da secoli vuole il maschile. Quando diciamo “Eccoci qui riunite”, nessuno potrà comprendere almeno per altri decenni che si tratta di maschi e femmine, comprenderà “solo femmine”, non si può manipolare la lingua a proprio piacimento con termini denotativi. Non si cambia prima la lingua e poi la cultura o la società. E’ il contrario. Altrimenti è solo un gioco di finzione.

Asterischi, femminili imposti e altre pseudosoluzioni politically correct non risolvono alcun problema né alcun divario reale di genere, rendono solo più difficile esprimersi. Occorre che il femminile si imponga nella società, che le donne occupino con il loro codice il mondo, anche perché appropriarsi del maschile senza porlo in discussione a poco serve.

Ma torniamo sulle rivendicazioni di genere. Chiaramente non è in discussione la parità economica o di opportunità quanto il codice cui si ispirano molte delle battaglie femminili/ste. Il punto è l’immaginario (maschile) cui sono improntate e il progressivo oblio di quell’area di espressioni dell’intimità che una eccessiva estimità femminile comporta. Non solo: l’accesso delle donne a molte attività maschili si è rivelato estremamente opportuno per la crescita delle società capitaliste e liberiste, offrendo un raddoppiamento della forza lavoro ma soprattutto un aumento esponenziale di consumatori, abilmente manipolato dai produttori. Del resto, se appunto incontestabile, pur in questa evidente sottomissione al dominio del mercato, appare la richiesta di un trattamento paritario per quanto riguarda le remunerazioni e le opportunità, un po’ meno ovvia o quanto meno degna di qualche riflessione è la torsione delle rivendicazioni femminili all’indirizzo di una maschilizzazione simbolica sempre più evidente delle loro mete. Come dice Michel Weber: non possono essere donne impregnate di patriarcato a modificare in alcun modo quest’ultimo (l’androcentrismo). Delle donne matriarcali o degli uomini matriarcali, eventualmente, lo potrebbero” (126)

Mi riferisco specificamente a una cifra simbolica stratificata nel tempo in virtù della quale, piaccia o non piaccia, riconosciamo il femminile nelle forme dell’accoglienza, delle analogie con il contenimento e l’intimità, la ricettività, con la spiccata qualità femminile di eufemizzare i volti del tempo (in corrispondenza con una certa inclinazione “notturna” del proprio immaginario simbolico), attraverso la morbidezza del ventre, il nutrimento del seno e in generale la capacità paziente di incubare e proteggere la vita nascente. Allo stesso modo il femminile è presente nella sua capacità di restituire vitalità alla natura, anzi di essere natura e selva, di contrapporre il mescolamento e il colore all’istanza diurna di forte contrapposizione se non di scissione, di verticalità e di luminosità che mortifichi ogni persistenza d’ombra. La confidenza nell’ombra, nell’oscurità, l’affinità con l’acqua e la terra, diversamente dalla tensione d’aria e fuoco che il maschile simbolico sembra prediligere, spesso in senso polemico e come emancipazione dal basso e dal contaminato, fanno del femminile il luogo emblematico del rifugio e della quiete.

Il corpo femminile è al contempo abbraccio e apertura, è però anche danza sul vuoto che il femminile presidia come suo esclusivo carattere. Il “mistero” del femminile sta nella sua imprendibilità, nel suo dissiparsi alla presa discorsiva (maschile) e fluttuare ben al di là di ogni separatezza di genere. Il femminile seduce proprio perché appartiene all’incanto di ciò che si apre e si apre, indefinitamente sull’abisso dell’amore. Il femminile che ha fatto l’erotica poetica: “non dispiaccia – dice Annie Le Brun- alla meschina sensibilità di tutte le staliniste in gonnella che popolano oggi i ranghi neofemministi per braccare il nemico di sesso, soprattutto quando esalta la donna; soprattutto la fascinazione dei poeti per la femminilità che non smette di testimoniare fino a che punto, nella sua innocenza, come nella sua incontenibile rivolta, essa tende a confondersi con un desiderio di essere che la vince largamente sulle sicurezze dell’avere. E’ Imalia che devia la tempesta con i suoi giovani movimenti di liana, è Juliette che sfida la natura nei suoi ornamenti di folgore, è la strega di Michelet che avanza ancora nella no man’s land della nostra storia, è Sophie von Kühn che sorride al margine della vita negli ornamenti mortali dei suoi quindici anni, è l’isteria e il “corteo di donne che scivolano sui tetti”, è quella giovane greca che, dopo aver freddato il commissario di polizia parigino che l’aveva violentata se n’è andata, insinuandosi lentamente nella macchia della sventura, a raggiungere l’uomo che ama, ed è soprattutto il profilo vagabondo, fragile, innamorato di Nadejda Mandelstam, che rovescia “contro ogni speranza” la disperazione di una generazione, di un’epoca, della nostra epoca…vertiginose avanzate sul bordo del nulla, inesauribile lusso della bellezza convulsivamente intenta a cancellare le frontiere della formale femminilità” (Le Brun, 1978, 127). Una femminilità incatturabile, come la visione del corpo nudo di Diana che sfida Atteone ad andarla a raccontare ben sapendo che essa è indicibile e irraggiungibile e che rappresenta proprio quella vertigine che il desiderio amoroso non si stanca mai di inseguire pur sapendola impossibile.

E d’altra parte se, come diceva Baudrillard, il femminile è dalla parte della seduzione, cosa che non piace alle staliniste in gonnella, vince sulla produzione proprio in ragione della sua non linearità, del suo essere gioco e incantesimo, sottrazione e invisibilità. Nel momento in cui si positivizza, si naturalizza, si vuole Legge, si dissolve: “seduciamo con la nostra fragilità, e mai con poteri e segni forti. La potenza della seduzione sta proprio nel fatto che in essa mettiamo in gioco la nostra fragilità. Seduciamo con la nostra morte, con la nostra vulnerabilità, con il vuoto che incombe su di noi. Il segreto è saper ‘trattare’ questa morte in mancanza dello sguardo, in mancanza del gesto, in mancanza del sapere, in mancanza del senso” (115). E’ in questa sospensione, in questo arretramento, o, se si preferisce, in questa offerta di niente, che si situa il desiderio, sterminato invece dalla positivizzazione dei segni, dei consensi, delle regole, deai saperi.

E’ quindi nella dinamica del desiderio, desiderio di un amore scatenato e alle prese anche con la sua nerezza (con il suo niente in gioco) che il femminile profondo ci attira, ben lontano da ogni retorica del consenso o di un “realismo sessuale” che esaurisce la potenza del rapporto amoroso in una contrattazione a suon di carte bollate.

Il femminile, che é irriducibile al ruolo materno pur avendolo in seno e che semmai assume i tratti delle eroine incatturabili di Jouve, dell’animal di Rachilde o della femminilità molteplice e in continuo divenire del diario segreto di Anais Nin, è così vasto da non meritare alcuna codificazione né alcuna oppressiva disciplina.

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